«Che il Novecento sia il “secolo dei campi” (come afferma il
titolo di un celebre libro che ne ricostruisce la storia complessiva) può
sembrare un giudizio troppo perentorio. In ogni caso, è impressionante la
diffusione dei campi lungo tutto l’arco del secolo scorso (e anche agli inizi
del terzo millennio): nei più vari contesti viene fatto ricorso a una strategia
di governo che relega un numero elevato di individui in spazi rigidamente
delimitati, li esclude dal contatto con la popolazione e li assoggetta a regole
e a condizioni di vita specifiche: li concentra in un luogo esclusivo; ed è
proprio alla concentrazione di masse di individui in uno spazio
confinato che fa riferimento il nome correntemente usato agli inizi del
secolo: “campi di concentramento”.
La loro storia è essenzialmente novecentesca (potremmo al
massimo indicare qualche precedente nella guerra di secessione negli Stati
Uniti d’America). I campi compaiono nelle guerre coloniali (a Cuba, nel
1896-98, nel Sud-Africa – nella guerra inglese contro i boeri – e nel
territorio dell’attuale Namibia, nella guerra condotta dalla Germania contro
gli Herero). Per un loro massiccio impiego in Europa occorre attendere la prima
guerra mondiale, quando tutti i paesi belligeranti ne fanno uso nei confronti
non soltanto di soldati nemici, ma anche di civili ritenuti a vario titolo
pericolosi per la sicurezza nazionale. La fine della guerra non significa però
l’esaurimento dell’esperienza concentrazionaria, che anzi conosce una
parossistica e drammatica intensificazione nella Russia sovietica e nella
Germania nazionalsocialista, tanto da divenire un tratto emblematico dei due
regimi. La sconfitta del nazionalsocialismo e del fascismo, con la seconda
guerra mondiale, non basta però a decretare la fine dei campi […]» Continua a
leggere su